Sempre chiediamo all’arte di rappresentare il nostro sentire, di rapirci, di svelarci qualcosa di arcano. Davanti alle opere di Roberto Dolzanelli, tanto cariche di storia, ci accade di sentirci trasportare in un non-tempo. Quei dinosauri dal volto umano e dalle zampe insanguinate che avanzano sazi e voraci molto ci dicono delle epoche trascorse. Così l’agnello nero suicida a picco dal grattacielo di periferia fissa l’istante in una sequenza fuori dalla cronaca: il minuto violento nel quale si concentrano secoli di soprusi, di slanci di libertà. Ma la fanciulla vestita di porpora che dondola sull’altalena sospesa su mille carrarmati verniciati d’argento celebra la leggerezza dell’anima sul cemento della storia: ci basta soltanto l’aspirazione a quella levità che deve esistere, capace di scardinare l’ordine falso imposto da poteri ciechi. La ragione e l’immaginazione vincono: l’altalena dorata non si fermerà, in un loop indistruttibile.
Tutto all’origine – nell’infanzia del mondo e nostra – era mosso da un’utopia, ma presto l’ideale si è dovuto calare nella realtà – alberi case amore (e dolore): e nella prova spesso ha saputo preservarsi. L’arte di Dolzanelli ci parla di quell’ideale residuo che si affaccia improvviso a ricordarci che non tutto si consuma: testimonia che è possibile mantenere intatto il sogno. Il prezzo da pagare è talvolta esoso, richiede un sacrificio totale.
La sabbia del tempo trascorre entro cornici di angeli: si avverte la presenza del sacro anche nella quotidianità più minuta. I simboli della cristianità: croce, calice, spine – si moltiplicano. L’albero della conoscenza del bene e del male è un ciliegio sfavillante difeso da una fanciulla. Si attende un passaggio: siamo nell’imminenza di un mutamento, di una rinascita: una Pasqua perenne, forte come la testa dell’agnello che sfonda la superficie della tela.
Dolzanelli crea un Eden allarmato nel quale si aspetta il miracolo.
Quello che la sua arte raffigura non è un dato di fatto, la presa diretta dell’esistente, ma la realtà elevata a potenza e a simbolo, divenuta esemplare. Questa arte esprime la metafora, lo stato psichico di una umanità orfana, capace però di speranza e di utopia.
Si ricomporranno le figure discinte? Spiccherà il volo la gazza ladra di croci? Prevarrà il ricamo sull’incendio? Non ci è dato, adesso, saperlo. Bisogna ancora sostare in un atteggiamento ultimo di consapevole coscienza, di composta urgenza.
Cifra distintiva è la bellezza, che risalta nei paesaggi perfetti, nella simmetria dei volti, anche nei frangenti più estranei e ostili. L’arte agisce in difesa della bellezza turbata del mondo, scovandone la nitida mitezza.
La perseveranza è una virtù che l’arte di Dolzanelli mette in luce: sia che si tratti di una fanciulla che ricama nonostante due rapaci la minaccino; sia che una figura femminile si stagli dietro a un pizzo candido o su
un fondale di minuscole perle; sia che la vigile fanciulla abbracciata al ciliegio prospetti un non più ingenuo Eden.
Le opere piò recenti acquistano un piglio più giocoso, meno categorico, con quella corolla variopinta a cinque petali ripetuta come un modulo che, staccato dalla tela, descrive un cretto gentile, rassicurante; come se dopo e oltre il pericolo, l’umiliazione e la tortura si prospettasse un orizzonte inedito. La divina facoltà di risorgere pertiene anche agli umani che non si lascino del tutto assorbire dalla materia. L’arte, fatta di materia e spirito, oscilla sul reale, ci predice sintesi e serenità futura, non ci lascia chiusi in una stanza.
I volti grandi come case che popolano le scene di Dolzanelli ci dicono che il dialogo è possibile, che i nostri destini non sono solitari, ma concordi: si tratta di spalancare finestre e occhi, di accettare la realtà per superarla.
Alessandra Giappi