Roberto Dolzanelli offre ai nostri sguardi una metafora esistenziale ove si danno appuntamento le ambiguità della vita, della natura, dell’uomo. Benché sovraccariche di fascino e di significati latenti, le immagini ci appaiano assolutamente sublimi[nate], sembrano infatti insinuare nello spettatore un senso di montante disagio. Non per nulla l’artista conferisce alle sue opere uno statuto di “straniante indeterminatezza” in cui l’esistenza parrebbe rovesciarsi nel surreale e nell’allucinazione.
Dolzanelli invita lo spettatore a mettere in discussione il rapporto di familiarità e di fugace analogia che le sue immagini intrattengono con la realtà in cui viviamo. Muovendosi su un versante caustico e parossistico, l’artista evoca processi di trasformazione che inducono a considerare la fotografia come “corpo (pittorico) vivo”, dotato cioè di un proprio sistema nervoso e cardiocircolatorio, perché la pittura è prima di tutto un’urgenza, un irrefrenabile bisogno di rappresentare il proprio mo[n]do creativo.
Muovendosi su un doppio registro, l’artista riesce a convogliare nella propria opera tutto ciò che lo circonda, dando forma a un universo complesso e in costante fibrillazione che si travasa dentro la dimensione del quadro e del quotidiano, senza mai staccarsi dall’uno o dall’altro, neppure nel momento della loro totale reinvenzione.
Roberto Dolzanelli coniuga [e congiura contro] i codici visivi. Nelle sue opere esiste un forte “rapporto focale” tra il soggetto e lo sfondo che lo racchiude, come a voler tentare l’avvicinamento al limite, a quell’inafferrabile confine che separa l’icona dalla semplice immagine. Insistendo su questo rapporto dialettico e metamorfico, l’artista attesta la sua capacità di attingere alle sollecitazioni visive e alle tensioni oniriche, riuscendo nell’intento di creare un tessuto connettivo tra i diversi piani/universi della rappresentazione. Sono luoghi metafisici, trascendentali, “non di questo mondo”, quelli che Dolzanelli usa per le sue figure: celestiali, seppur di un cielo ottenebrato, invaso dalle nuvole che sembrano farsi presagio di sciagure. O magari di un idillio masochistico.
Ebbene: si noti come nelle opere la stratosfera sia invasa dei nembi. Tuttavia: non c’è mai nessun nimbo sulla testa delle figure, sono sempre in difetto di santità, tutt’al più possono vivere all’ombra della deità. Divinità infusa che li annetterebbe al pantheon del sovrumano… dell’oltre-umano… perché noi tutti accettiamo più facilmente qualcosa di ultraterreno, capace di sfuggire alla nostra comprensione… La mistica ha sempre la meglio sulla ragione?
Emil Cioran ci ricorda che «la disperazione sorta tra un cielo e un deserto parimenti implacabili ha prodotto l’esacerbazione della santità. L’aridità della coscienza, di cui si lamentavano i santi, è l’equivalente psichico del deserto esterno. Tutto è niente – questa la rivelazione iniziale dei conventi. Così comincia la mistica».
Umanizzare il divino e divinizzare l’umano. «L’uomo», continua a scrivere Cioran, «è fatto così: si perde nella Divinità oppure la provoca». Ma più che il Sacro, regna qui ciò che è connesso con il profano e il mondano. Le Madonne sono equiparate a delle Maddalene, oppure alla primordiale Lilith. Sono esse dive o divine? beate o maledette? virtuose o viziose? nobili o inique? All’Eterno Femminino si è sovrapposto un Inquieto Femminino che vive di contraddizioni, diviso tra la forza [d’animo] e la debolezza [morale], giacché alla fine gli opposti si conciliano – ecumenicamente.
L’artista gioca con il tema del doppio lasciando dietro di sé la traccia di eventi ambiguamente sospesi tra passato e futuro, tra realtà e finzione, tra visioni psichedeliche e scenari “poliedrici” (anche in senso geometrico). Doppiezza che non risparmia neppure le figure, sprofondate nel dubbio e nella tentazione, in bilico tra l’apollineo e il dionisiaco. Quest’insinuante duplicità si palesa anche nei loro tratti somatici, i cui volti sono (perfettamente) speculari; ri-scontro visivo, in cui la simmetria antinaturalistica mette in scena l’inautentico, quel Grande Teatro – del Dramma, della Tragedia – ove ogni figura non attiene al realismo ma a un fenotipo fotografico.
Alla resa dei conti Roberto Dolzanelli sembra rivisitare la trinità per sviluppare un duplice rapporto ternario. L’uno costituito da passione, seduzione, erotismo. L’altro formato da carne, sangue, nervi.
Nonostante il timore che la società ancora nutre di fronte all’accettazione del diverso, l’incerta/ibrida situazione che domina la vita attuale non è poi così assurda e distante da queste immagini. Dolzanelli agisce in bilico tra un corpo in divenire e un’identità in continuo movimento, ottenendo delle sintesi estetiche che innescano una socialità esplicitamente visiva, e comunque morbosamente profetica.
La rappresentazione sembra congelata, algida. Lo stesso dicasi delle figure, sempre ieratiche e impassibili: più carnali che spirituali, più estetiche che estatiche. I simboli che appaiono in queste opere oscillano tra l’estasi e lo sgomento, ma alla fine ciò che emerge nell’opera è il suo armonico nitore, imbevuto di luci e ombre che rischiano di accecarci.
Tutt’altro che marginale è lo sfondo, che l’artista rende sempre compositivo, giammai conclusivo. Sovrapponendo e amalgamando gli elementi, quasi a scongiurare il pericolo dello spazio vuoto, le opere riescono a contenere una molteplicità di livelli e di sintassi. In particolar modo, negli ultimi lavori si fondono le esperienze e le memorie dei cicli precedenti, sviluppando connessioni tra gli inizi e il presente (ancora tutto in fieri). Assistiamo così a una sorta di riconversione del lavoro degli ultimi anni, nel tentativo di realizzare una narrazione: raccontare cioè un’altra realtà, facendo perdere noi stessi in essa.
La matrice cristologica, qui assiduamente sottesa, accetta il proprio destino – funestato da patimenti, dolori, miserie – a patto d’incarnarsi in figure femminili. Giammai presenze virili, solo muliebri. Una, cento, mille donne che sprigionano incanti e veleni di un’innocenza ormai perduta, forse tradita, talvolta sconfessata, quasi fossero una risposta al ciclo di lavori che hanno per protagoniste delle fanciulle nel fiore della giovinezza, prototipo di un’Età dell’Oro che è stata ripudiata troppo precocemente.
Senz’indugio, lo sguardo è rivolto a un intreccio di possibili e plausibili, ma non per questo meno paradossali, sollecitazioni che declinano l’immagine in alterne polarità: inoffensivo/minaccioso, beffardo/tetro. Ogni opera diventa ai nostri occhi un elemento istigatore. In un contesto solo apparentemente decorativo, Roberto Dolzanelli nasconde tra le vertigini cromatiche e lo stupore delle forme messaggi aspri e duri che ci obbligano a riflettere sulla nostra identità, come pure sul destino che ci attende. È l’arte, più che la religione, a insegnarci l’escatologia.
Alberto Zanchetta