A PROPOSITO DI UN’IMMAGINE DI ROBERTO DOLZANELLI

Una bimba con un vestito rosso. Nella mano sinistra, alzata all’altezza del gomito, appena al di sopra del ventre, un calice. Nell’altra, un aereo-giocattolo osservato di sbieco: sguardo che non dice nulla. Intensità e fissazione allo stato puro.
Il corpo pare uscire dal rosso del vestito senza volume e spessore, è di un biancore nitido e la carne rivela se stessa solo per un vago ombreggiarsi all’altezza delle ascelle e dei ginocchi.
Dietro alla bimba si vede un cane (un cirneco?) e un cielo blu scuro solcato in alto e in basso da strisce di nubi rossastre.
Il sole è tramontato alle spalle della bambina e i suoi bagliori, evidenti nella nuvolaglia, danno al piano dove appoggiano le due figure un aspetto di terra arida e vermiglia, di lenzuolo spiegazzato qui e là, di tappeto da teatro dove la luce va smorzandosi.
Ma è davvero il sole a determinare l’illuminazione dell’intera scena?
La bambina e il cane non proiettano ombra; e la prima, perfettamente visibile nello sguardo, nel corpo e nel gesto, pare illuminata da una luce proveniente più dall’interno del suo essere, come se fosse di vetro opalino, che da una fonte esterna, mentre il cane sfiorato sul dorso e sul muso da un tenue riverbero rivela una sorgente luminosa invisibile e carica di mistero.
Tutto è fermo, bloccato in un’atmosfera né reale né surreale, quasi l’intento dell’artista non fosse quello di evocare una realtà o una sua dimensione altra, onirica e mentale, quanto invece di cercare uno spazio, un’atmosfera in grado di inscenare e avvolgere il libero gioco dei segni e dei simboli, simboli forti, potenti, ricorrenti spesso nelle sue opere (il calice, la croce, l’agnello, la corona di spine) o segni che nella loro evidenza premono insistentemente e con una certa audacia verso il simbolico (l’aereo, il carro armato, l’albero, il ramo spinoso di rosa, il giglio giallo…) qui ridotti a due soltanto: il calice nella mano sinistra e l’aereo in quella destra. Che relazione c’è tra loro?
A cosa veramente alludono?
Perché sono nelle mani di una bimba dal vestito rosso?
Quel cane dalle orecchie appuntite cosa fa lì?
È veramente un cane?
O la statua di un cane?
Il simulacro di un dio a forma di cane?
Perché la terra è più rossa del cielo, se il sole è appena tramontato?
Le domande potrebbero essere quasi infinite, come le risposte e le supposizioni cui potrebbero dare adito. Un intrico fitto e complesso. Una possibilità ghiotta per qualsiasi spettatore, che non va però né sottovalutata né enfatizzata.
Il fascino dell’immagine, la sua forza di attrazione e la sua bellezza, infatti, non risiedono in tale possibilità, bensì nello spazio-luce in cui questa è messa in opera. Spazio-luce che trascende ogni domanda e ogni risposta, che afferma e nega nello stesso istante il significato del simbolo, dandogli quel qualcosa in più che lo fa intimamente nostro.
Misteriosamente nostro.

Cesare Lievi