Ciò che è perduto insiste su spessori sottilissimi, su carte graffiate, su tinte di terra o muro dove la luce è livida, o dove l’orizzonte suggerisce il gelo, magari dentellato, di <<una qualunque mattina>>.
Ciò che è perduto – o è così nella mente – si applica, in una astratta fissità ingannevolmente decorativa, su queste superfici, con tenace costanza.
E diviene un simbolo di cui la memoria non si limita ad affondare nel passato, ma chiede che l’innocenza e un’eco dell’infanzia aprano un futuro che sfondi quella specie di cappa buia.
L’oscillazione avviene tra la delicatezza (e quasi il gioco incorniciato) di un umile oggetto, un innaffiatoio rosso, e quell’atmosfera cupa, a un instante dal tragico, di un mare e un cielo in tempesta su cui campeggia un segnale ambiguo, o già sinistro.
Ma l’araldica di un perduto che è speranza – e che è, dunque, energia attiva -, non è certo vasta. Si appoggia su ricorrenti simboli appena variati: una ghirlanda o una cornice di angeli, un loro ritmo; una croce, un fiore, forse un quadrifoglio.
L’innocenza e il sacro sono in quelle figure, nel <<volo di cherubino>>, nell’<<angelo più bello>>, che attenuano una tensione desolata.
Un respiro umido pervade un paesaggio che sembra macerarsi.
Un clima tardo autunnale domina una scena cieca, elementare e povera, percorsa da brividi interni.
Eppure l’autore sa essere lieve, sa essere fedele, nella ferialità lirica della sua ossessione.

Maurizio Cucchi