Comprendere o avere una così detta chiara ed oggettiva visione del mondo, penso sia uno degli aspetti più complessi, se non impossibili, a cui l’uomo possa ambire o semplicemente tendere. A maggior ragione se la sensazione dominante del tempo nel quale egli è protagonista, è dominata dall’assenza, intesa come penuria di ideali, dove spadroneggia la ristrettezza mentale ed egoistica dell’ideologia, che ci incatena ed ingabbia all’interno di riduttivi e immobilizzanti schemi mentali.
Abbiamo ucciso i sogni, lasciando che gli incubi prendessero il sopravvento, optando e prediligendo la strada della superficialità, della scorciatoia che insegna la furbizia nel non porsi troppi scrupoli o remore per la modalità con cui raggiungere la meta, l’importante è ottenerla.
Nonostante tutta questa reale decadenza dell’io, il mondo che ci accoglie appare avvolto da un fascino che non lascia indifferenti, che certamente non ci soffoca con la noia, ma induce ad una continua e seria riflessione.
Roberto Dolzanelli ascolta la voce del mondo, le vibrazioni delle passioni, ripercorre la storia dell’uomo, delle sue tradizioni, della religione, dei luoghi dai quali proviene, del concetto di dimora come luogo di origine, come estensione, dal quale proveniamo, ma anche nel quale possiamo ottenere rifugio o ritrovare lo “spazio” di un’intima e palpabile riappropriazione emozionale.
L’emozione, la forza del dinamismo inarrestabile della vita, il noto slancio vitale al quale siamo abbandonati, presuppone anche il suo opposto, il viaggio nell’ignoto, l’eterno riposo che immediatamente produce tremolio, instabilità fisica e di pensiero: la morte.
“La cosa terribile non è la morte, ma le vite che la gente vive o non vive fino alla morte. Non fanno onore alla propria vita, la pisciano via. La cagano fuori. Muti idioti. Troppo presi a scopare, film, soldi, famiglia. Hanno la testa piena di ovatta. mandano giù Dio senza pensare, mandano giù la patria senza pensare. Dopo un po’ dimenticano anche come si fa a pensare, lasciano che siano gli altri a pensare per loro. Hanno il cervello imbottito di ovatta. Sono brutti, parlano male, camminano male. Gli suoni la grande musica dei secoli ma loro non sentono. Per molti la morte è una formalità. C’è rimasto ben poco che possa morire.”
Queste parole appartengono a Charles Bukowski, colui che spesso viene definito come il “cattivo ragazzo della letteratura, ma che in primo luogo è stato uno degli intellettuali più attenti e precisi nell’indagine dell’uomo contemporaneo.
Da queste parole sembra emergere un’altra riflessione, chiara, forte, netta e precisa: il rapporto tra vita e morte. Un’indagine che trova piena assonanza nella ricerca di Roberto Dolzanelli, dove la percezione e la riflessione sulla natura umana, l’attenzione alla cultura, alla società, al senso che il nostro essere occupa nel tempo presente e il rapporto abituale con la violenza devastatrice, divengono tutte tematiche basilari ed imprescindibili, per fare in modo di non offrire il petto alla staticità di pensiero, ma tramutare il concetto in espressione artistica.
La donna assume un ruolo centrale nella maggior parte dei lavori di Dolzanelli; simbolo di purezza, di fascino primordiale, di simbolo ancestrale da dove tutto ha origine, messa a nudo di fronte alla vita, in un rapporto diretto con le simbologie del tempo umano. Una donna che non ha paura, consapevole della forza della determinazione, non finalizzata al potere ottenuto ad ogni costo, con ogni arma e mezzo possibile, ma forte del sensibile desiderio di riflettere sul senso dell’ascolto dell’altro, inteso come parte del sé.
Un donna che in questi lavori viene posta in stretta correlazione e relazione con alcuni dei simboli della tradizione cattolica, qui però non interpretati con esclusivo senso religioso, ma perché elementi di immediata comprensibilità comunicativa, di contenuto e per indicare come l’eterno conflitto tra bene e male abbia origini lontane nell’età dell’uomo. Un uomo che diviene donna, che non accetta il conformismo, la fine delle passioni, ma che a costo di conoscere la sofferenza, “indossa” quella corona di spine, simbolo del dolore assoluto. Il paesaggio, il luogo dell’azione diviene pittura, acquarello, spazio temporale bloccato nei ricordi, nella nebbia della memoria, dove il luogo di origine è delineato da una casa, dal senso dell’abitare, che attraverso la natura, le piante idealizzate e forgiate dal colore, consente di recuperare lo stupore del poter respirare l’aria cristallina dell’immaginazione.
La donna è spesso raccontata nel periodo dell’infanzia, concentrandosi sulla complessità dell’universo, della fanciullezza, della spensieratezza, di quel respiro che porta purezza, nonostante sia stata catapultata senza colpa alcuna tra gli ardori dell’aggressività e dell’egoismo.
Ritornano protagonisti i simboli con i quali volente o nolente essa interagisce: da un serpente alle mosche, dalla croce ad un campo di papaveri rosso sangue, ad un agnello, prima oggetto e poi reale presenza animale, scuoiato e quindi privato di vita e di ogni dignità. L’opera di Dolzanelli ci vuole mettere in guardia dal percorso che abbiamo intrapreso, ci dice che il male è sempre in agguato, che la vita è spesso abbagliata da istinti ferini, da una presenza oscura, che attende paziente ed inesorabile. Appare sotto forma di cane-bestiale e spietato in molte delle opere dell’artista bresciano, sempre alle spalle del protagonista, aspettando di trovarci impreparati, soli, dopo aver erroneamente confuso l’individualismo, cioè la rinuncia alla relazione e allo scambio con l’altro, con la libertà individuale. Qual è allora il modo, considerando che ve ne possa essere uno, per salvare la propria identità dalle grinfie di quella che sempre di più sta divenendo una non-società, che vìola e violenta l’intima espressione?
L’attività umana è spesso accompagnata da quesiti, che già mentre vengono pensati e formulati originano dubbi, ricerca di risposte, che possano imprimere forza per “combattere la violenza” che viene imposta al pensiero.
Sempre Bukowski ci ricorda che: “Il problema grosso è che per una parte di umanità è tutto quanto una replica. Nessuna freschezza. Non un minimo prodigio. Semplicemente, continuano a macinarmi. Se un giorno vedessi anche una sola persona che fa o che dice qualcosa di insolito, mi aiuterebbe a tirare avanti. Invece sono stantii, grigi. Non c’è slancio. Occhi orecchie, gambe, voci, ma…niente. Racchiusi dentro se stessi, si prendono in giro, fingendo di essere vivi”.
Queste parole come le immagini di Dolzanelli, dovrebbero servirci da stimolo per trasformare il nostro tempo e le icone di questo momento storico in un dialogo privilegiato e continuo tra uomo e reale, in modo da poter finalmente trovare una sintonia, che non accechi gli sguardi, che non assassini le speranze, ma renda visibile l’invisibile.  

Alberto Mattia Martini