Credo che il senso di questa ampia retrospettiva dell’opera di Roberto Dolzanelli stia tutto nel suo titolo “Al tempo della luce che verrà”.
Si parla infatti di un tempo, di una fase cioè della vita sia personale che collettiva, in cui si aspetta una luce che deve venire.

Il soggetto di questa attesa è preminentemente femminile: una bambina, una ragazza, ma anche una giovane donna, comunque belle e ambigue, innocenti e provocanti, caste e meretrici.

La luce che deve venire viene evocata spesso con i simboli del Cristo: è il calice del suo sangue che raccoglie il siero luminoso che ingraviderà la Donna?
Certamente questa attesa non è affatto tranquilla, ma anzi manifesta segni di profonda inquietudine, e di angoscia: cani neri la minacciano e la accompagnano, la serpe è pronta a mordere, micidiale.

La luce che verrà viene in un tempo, che è anche un tempo di guerra: il figlio, potremmo dire, si incarna in una carne difficile, ostica, a volte ostile, e la mariologia di Dolzanelli è appunto un’attesa controversa: l’Anima-Donna oscilla tra la santità di Maria e lo sguardo assassino di Medea: questa Donna insomma accoglierà la luce che viene, o ucciderà il bambino nel suo stesso grembo?

La questione resta irrisolta, e forse questo spiega il clima sospeso e in buona parte malinconico che avvolge questo tempo di avvento.
Forse l’umanità però, giunta ormai in una fase davvero ultimativa, è chiamata a decidere da che parte stare, per godere più pienamente la gioia di una luce che è già venuta, e che già ci sta trasformando in esseri di luce, mentre, come la bambina, stiamo imparando a ricamare nella nostra carne il volto di Cristo.

L’arte di Dolzanelli dunque non ha nulla a che fare con le derive estetistiche, nichilistiche, o decorative, che dominano questo tempo oscuro, e si eleva invece verso la finalità intrinseca dell’opera d’arte nel tempo dell’attesa: e cioè verso la diaconia visionaria e profetica: mostrare in immagini potenti i misteri iniziatici che stiamo tutti vivendo, per aiutarci a realizzarne le varie fasi.

Marco Guzzi